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mercoledì 5 novembre 2014

MATTIA VS FOOD # 15: LO SPEZZATINO DI CINGHIALE



Buongiorno a tutti voi poveri stronzi che, alle undici di mattina, non hanno niente di meglio da fare che stare dietro alle disavventure alimentari di un povero beota.
Dopo questo incipit positivo e pieno di brio inoltriamoci senza indugi nella quindicesima puntata di Mattia vs Food, la rubrica famosa in tutta Ponte Felcino e quartiere Fontivegge.
Oggi parleremo del grande record battuto da me e Jack: consumare un pranzo a base di prodotti scaduti, non battere ciglio e cagare solido.

Ma dobbiamo tornare indietro nel tempo:
Sono i ridenti anni dell'Accademia di Belle Arti e, come al solito,  io e il buon Jack ce ne andiamo a pranzo a casa di mio padre.
Frugo nel frigorifero e trovo i soliti ingredienti tipici dell'uomo single: uova, Simmenthal, pomodori pelati, paté chimici e bibite di sorta.

In una pentola butto la Simmenthal, paté di carne, il pomodoro, alcune spezie oscure di contrabbando e, per ultimo, l'uovo.
Il risultato è sorprendente: spezzatino di cinghiale, di quello buono fatto in casa. Di quello che ti servono alla trattoria per cacciatori abbarbicata sul costone roccioso di una montagna impervia, con tanto di avventori vestiti mimetici. Che puzzano ancora di polvere da sparo e sottobosco.




Io e Jack ridiamo della scoperta fortuita e ci ingozziamo avaramente della sbobba immonda, bevendo alcolici e bibite sgasate.
Inebetiti dai conservanti e coloranti di ciò che avevamo appena cucinato, nonché dall'alcool di pessima qualità, decidiamo di riprodurre il miracolo ma falliamo miseramente.
E lì ci accorgiamo della cosa: le uova utilizzate nella precedente ricetta erano scadute da una settimana. La Simmenthal pure da prima. Il paté era praticamente un residuato della Grande Guerra.
Un nero terrore ci avvolge come un presagio e rimaniamo seduti al tavolo a parlare del più del meno.

Fumiamo.
Aspettiamo.
Ridiamo.
Aspettiamo.

Abbiamo in volto quell'inquietudine sottile di chi sa di averla combinata grossa ma vuol fare finta di nulla.
Praticamente, aspettiamo che un violento spasmo addominale ci faccia cagare addosso ma, miracolosamente, non succede nulla.
È il fatto non stupisce più di tanto nel mio caso, vista la mia capacità di digerire l'asfalto, ma nel caso di Jack, che di solito mangia miglio come i canarini.
Quello se mangia qualcosa più pesante del prosciutto gli viene la gastrite.

E invece? Sopravvissuti.
Un pomeriggio strano. Una ricetta creata per sbaglio che mai più siamo riusciti a ricreare. Lo spezzatino di cinghiale più buono della Terra, mio Dio. Perduto.

Perduto per sempre.
Che delusione.

lunedì 20 ottobre 2014

MATTIA VS FOOD # 14: LA LEGGENDA DELLE MOZZARELLINE FRITTE



Venghino signori verghino alla quattordicesima puntata della rubrica che celebra gli incidenti alimentari di sorta.
Oggi parleremo di una delle più grandi insidie che un pranzo (o un buffet) possono nascondere: le mozzarelline fritte.
Questi diabolici artefatti vennero creati quando la Terra era ancora giovane e i demoni del Mondo Antico imperversavano sul mondo ancora in via di creazione.
Ju'hklash, signore del dolore e delle ustioni di quarto grado, era attratto dal centro della Terra. Quella massa incandescente e terribile capace di dissolvere in un attimo qualsiasi sostanza, vaporizzandola, lo attraeva più di ogni altra cosa.
Passava giornate intere a fissare quel magma torcersi e ribollire infaticabile e sognava, un giorno, di poter ingabbiare quel potere e quindi di riuscire a controllarlo a suo piacimento.

Successe così che Ju'hklash conobbe Gmoriijs, cuoco supremo degli dei. I due si trovarono subito in sintonia, dapprima chiacchierando del più e del meno e poi, una volta intesa la loro comune passione per le cose malvagie, passando a discorsi su esperimenti, processi alchemici e torture di ogni tipo.

Le loro menti erano nate sbagliate, stravolte da una violenza antica.
Ju'hklash aveva trovato in Gmoriijs un amico.

Fu cosí che, una sera, i due decisero di tentare l'impossibile: imbrigliare il potere distruttivo del Nucleo Terrestre in un oggetto fisico.
Gmoriijs impiegó quasi tre mesi di sacrifici, fallimenti e oscuri incantesimi, ma alla fine riuscì a sigillare il magma bianco è terribile dentro una panatura.
Così nacque la prima mozzarellina fritta.
Ma Ju'hklash era geloso del suo segreto. Aveva paura che Gmoriijs avesse potuto tradirlo o, peggio ancora, svelato la ricetta delle mozzarelline agli esseri umani.
Così, una notte di pioggia, Ju'hklash fece addormentare Gmoriijs con del vino soporifero e, maledicendo sette volte il suo nome, nel sonno lo uccise con una daga d'argento lunare.
Ma Ju'hklash non sapeva che, nell'ombra, occhi avidi avevano visto tutto.

Erano gli occhi del paggio di corte, Alessio Ferri.

Esso, assetato di potere e con l'anima nera come l'inferno, denunció Ju'hklash alla Corte degli Dei per i suoi crimini contro il Mondo è per l'assassinio del cuoco.
La sera del processo tutte le divinità vollero essere presenti per la sentenza, e fu allora che Alessio Ferri si intrufolò nelle stanze sigillate dove l'omicidio era stato commesso.
Il corpo di Gmoriijs giaceva ancora sul freddo pavimento di marmo.
Alessio Ferri, dopo aver approfittato del cadavere, rubó la ricetta e fuggí per sempre dalla Corte degli Dei, per far mai più ritorno.

Come ci è arrivata la ricetta, dite voi?
Alessio la vendette molti anni fa per quindici euro. Gli servivano per fare la ricarica al telefono.

Questo lungo preambolo serviva a farvi capire perché non esiste nulla sul pianeta che sviluppi più calore dell'acquetta contenuta nelle mozzarelle fritte. E questa è una cosa che, volente o nolente, ogni essere umano scopre a sue spese.

Così successe a me parecchio tempo fa. Me ne stavo ad un buffet X, molto probabilmente un matrimonio di uno dei miei mille e cinquecento parenti.
Un cuoco sadico decise quel giorno di gettare nello stesso piatto olive ascolane e le famigerate, pericolosissime mozzarelline fritte.
Le prime, ad una temperatura umana, somigliavano pericolosamente alle seconde, che avevano raggiunto la temperatura di fusione dell'acciaio industriale.

Io ingoiavo due olive ascolane alla volta, quand'ecco che un amico mi distrasse.




Afferrai la mozzarellina e, sicuro, la infilai in bocca schiacciandola con i denti.

Signore Iddio onnipotente Salvatore dei cristiani.

Per capire che cosa provai chiedete, per cortesia, chiedete ad un vostro amico pugile di cospargersi il pugno di salnitro, zolfo, carbone e benzina.
Date fuoco al pugno del vostro amico, aprite bene la bocca e chiedetegli di darvi un poderoso pugno in gola.
Ma che sia forte abbastanza affinché i vari elementi si combinino nella più famosa polvere pirica affinché il vostro esofago esploda.

Mi misi, semplicemente, a piangere. Con la bocca spalancata. Sbavando.
Quindi, cari amici, controllate i buffet e diffidate da tutto ciò che sia tondo e fritto.
O dovrete passare tre giorni a mangiare brodo freddo. Come me.

sabato 4 ottobre 2014

MATTIA VS FOOD # 13: L'ONDA



Benvenuti alla rubrica dedicata ai pasti devastanti, pericolosi e mancati.
E, quest'oggi, proprio di questi ultimi si parla.
I pasti rubati.

O rovinati.
O troppo costosi.
O sottratti all'ultimo.

I pasti che, in parole povere, non arrivano allo stomaco.

Avevo finito di lavorare abbastanza presto e tornavo a casa dopo un turno abbastanza stancante.
Dovete sapere che io vengo spesso assalito da voglie alimentari che al confronto donne incinta spicciatemi casa.
Una volta dovetti correre dentro un alimentari al centro di Perugia perché DOVEVO mangiare olive verdi e bere succo ACE. Ne mangiai un barattolo grande e ne bevvi un litro e mezzo.
Questa volta la voglia è un'altra: zozzerie. Quegli alimenti chimici e pericolosissimi che, assunti in grandi quantità, rendono ciechi o sordi o muti.
Una volta conoscevo un tizio che consumava due tubi di Pringles al giorno, uno dopo pranzo e uno prima di infilarsi a letto.
Dopo sette anni 'sto tizio ha perso tutti i capelli e riesce a camminare sulle braccia.
Tutte e sei.

Entro da Tesco e mi infilo nella galleria dei cibi malsani, girone moderno popolato da studenti svogliati e tossicodipendenti benestanti. Sguardi che rovistano, che cercano, che agognano spazzatura confezionata da designer super pagati.
Adocchio subito la mia preda: una pasta al bacon, pollo e salame piccante. Il tutto galleggiante in quella che viene millantata come una salsa al pomodoro e basilico.
Mi godo la grafica del pacco, la forchetta di plastica nera, la sfacciataggine con cui Tesco cerca di rifilarti le sue baggianate sul cibo buono e fresco.
Esco dal supermercato fiero ed affamato, la mente stravolta dall'acquisto colpevole.
Apro la confezione per la via, ansioso di gustarmi gli emulsionanti e i conservanti in essa contenuti.

Ha appena piovuto.

Turnpike Lane, mai famosa per la cura stradale, è piena di buche.
E le buche sono enormi pozzanghere.

Una macchina passa a razzo, spostando una quantità d'acqua pari all'Oceano Indiano. Su di me. Sulla mia pasta.
Guardo nelle mie mani e la confezione di plastica sembra essere stata riempita dalle fangose acque del Gange.
Vengo infiammato dal fuoco nero della rabbia. 




Inizio a bestemmiare selvaggiamente, urlando al cielo la mia disperazione.
Butto la confezione con gesto teatrale e, con il pugno chiuso verso le nubi, giuro una tremenda vendetta contro il guidatore ignoto.
Pieno di odio verso il mondo e gli automobilisti, sento addosso tutta l'acqua, la puzza e lo sporco della cazzo di Londra.
Mi incammino a grossi passi verso casa, mormorando orribili anatemi tra i denti.


Passai la giornata chiuso nella camera, fumando come un turco e leggendo articoli sulla criminologia.

martedì 16 settembre 2014

MATTIA VS FOOD # 12: IL BALUARDO DI SVENTURA



Mattia vs Food ha sempre parlato di come il cibo sia stato fonte di guai per il sottoscritto. Un’equazione in cui le variabili erano molto spesso quantità, qualità o temperatura dell’alimento. Eppure molti di voi saranno d'accordo sul constatare che, spesso, il cibo è assolutamente ok. Spesso la situazione memorabile che raccontiamo al bar non riguarda il cibo in sé, ma l’ambiente circostante. Quel qualcosa che accade e impedisce di poter godere del rito alimentare.
Allacciate le cinture e preparatevi a fare un salto indietro nel tempo, quando Mattia aveva un quindici anni buoni e tutto andava per il meglio.

Siamo a Capri. Non ricordo con chi.
Siamo alla spiaggia vicino i Faraglioni e, ipotecando la casa a Perugia, riusciamo a permetterci dei panini al chiosco lì vicino. Li paghiamo quanto una Volkswagen.
Non faccio in tempo a gustarmi il prosciutto secco e il formaggio finto tra le fette di pane che una strana sensazione mi avviluppa tutto: sono osservato. Occhi che cercano, occhi che scrutano.

Occhi che vogliono.



Inorridito da tanta lucida follia (parlo di quella che sgorga dagli occhi del pennuto), gli lancio un pezzo di prosciutto. Quello si lancia con selvaggia furia sull’offerta e la divora in un sol boccone.
Approfittando della mattanza io fuggo, zigzagando fra i turisti tedeschi con sandali e calzini. 
Credendomi al sicuro, dietro ad uno scoglio, addento il panino avidamente, cercando di finirmelo in fretta. Per poco non mi strozzo. Sono a metà dell’opera quando di nuovo sento quella sensazione.
Sbircio oltre la roccia e lui è lì.
Baluardo di Sventura, Flagello dei popoli e Braccio della Disgrazia.

Di nuovo i suoi occhi mi si piazzano addosso. E sono come due lame fredde che scavano nelle carni, alla ricerca della mia ragione e della mia volontà.
È come essere scrutati da Sauron.

Gli lancio un pezzo di pane, lui lo annusa e, disgustato dal fatto che l’offerta non consiste più in prosciutto, torna a scrutarmi con fare critico e violento.
Lo stress psicologico del tutto è insopportabile, e io mi infilo gli occhiali da sole, nella speranza di non essere riconosciuto.

Questo gesto fa impazzire il gabbiano, che si lancia urlando a becco aperto. Corre, corre come un ossesso calpestando i turisti e graffiando schiene con i suoi artigli. Corre ad ali aperte, assetato di sangue.

Io faccio quello che una qualsiasi persona sana di mente avrebbe fatto: gli lancio il panino in faccia e fuggo.

Non sono mai più tornato a fare il bagno a Capri.


Temo che lui sia ancora lì ad aspettarmi nelle tenebre.

venerdì 29 agosto 2014

MATTIA VS FOOD # 11: IL SUSHI A PIAZZA DEL BACIO



Il sushi è sempre stato uno di quegli alimenti che disattiva quelle barriere mentali di sopravvivenza che ci distinguono dagli animali. Quel raziocinio che ci impedisce di seguire l'equazione “oh che bel pezzo di formaggio + io volere pezzo di formaggio = io cadere vittima di trappola che mi spezza il collo”.
Con molti cibi che mi piacciono riesco ad avere un contegno ed evitare di rimanere vittima di potenti indigestioni. Altre volte, come nel caso del sushi o delle zeppole fritte che fa mia nonna, no.

In Piazza del Bacio, di fronte alla stazione centrale di Perugia, sorge il Wasabi, ristorante giapponese a prezzo fisso in cui il cliente si serve direttamente da un rullo su cui scorrono dei piattini contenenti ogni ben di Dio.

Parto alla volta del Paradiso in compagnia di mia sorella e della sua migliore amica, Saretta.
Prometto a me stesso di darmi una regalata. Di non fare come quella volta a Terni, che per poco ci rimanevo.

Prometto.

Veniamo seduti da una signorina asiatica molto affabile e i miei occhi vengono ipnotizzati dal nastro trasportatore carico di cose buone e colorate. Mattia l'essere umano viene cacciato violentemente da Mattia l'animale, e inizio ad afferrare piattini per associazione cromatica.
Innaffio il tutto con salsa di soia, utilizzando direttamente il braccio di una doccia.
Dopo quarantacinque minuti ho mangiato trentasette sushi. Inizio ad avere difficoltà respiratorie e di coordinazione mano-occhio.

Faccio per prendere un sashimi ma afferro la guancia di una seduta a fianco a me.
Mi mangio un gelato fritto, della frutta e decido di smettere.
Respiro piano e pesante, sudando.
Attorno a noi, la gente guarda di soppiatto al nostro tavolo. Mi sento come un'attrazione del circo Barnum.

Poi succede di nuovo: gli occhi mi vanno a quei sushi scintillanti, a quei tocchi di tonno rossi e vivi grazie ai potenti conservanti e agenti chimici di cui saranno stati imbottiti.
E il mio cervello sragiona. Qualcosa scatta e si rompe nella mia ragione.

E ricomincio.

Ricomincio a mangiare, invasato.

Mia sorella mi trascina via che ho appena ingoiato il settantunesimo pezzo. Sto male. In macchina rischio di vomitare un paio di volte.
Vedo flash di luce gialla davanti agli occhi.

La notte va anche peggio.




Mi sveglio alle quarto e un quarto che non riesco a dormire. Mi fa male lo stomaco e non ho la forza di alzarmi per via dei crampi addominali. Sudo freddo. Nello stomaco ho l'equivalente di un salmone.

Vivo.

Riesco a trascinarmi verso la finestra e, aggrappandomi al termosifone, la apro, inondando la stanza della fredda aria notturna.
La cosa mi da un minimo di sollievo e striscio nuovamente sotto le coperte.

Mi sono svegliato la mattina con lo stesso effetto di un dopo sbronza, il cuscino pieno di bava e una curiosa schiuma giallina attorno alla bocca.

lunedì 11 agosto 2014

MATTIA VS FOOD # 10: ATTACCO POLACCO



La rubrica degli incidenti dovuti all'alimentazione celebra il suo decimo anniversario con una puntata che potremmo definire est europea.
Capita infatti spessissimo che, dopo una giornata di duro lavoro, io e Kalinowski (il mio coinquilino polacco che molti avranno già avuto il piacere di conoscere sull'ultima puntata di recensioni senza matita) ci ritroviamo abbandonati sul divano, senza nemmeno la forza di sbattere gli occhi.
9 volte su 10 decidiamo di ordinare uno dei numerosi e pericolosissimi take away che la capitale del Regno Unito ha da offrire.
Questa volta, però, siamo nel panico. Abbiamo provato di tutto. Cinese. Sushi. Vietnamita. Turco. Pizza (Iddio mi perdoni per chiamarla tale).

Il panico.

Arriva prontamente in nostro soccorso Mastro Franco, il padre della mia ragazza. Egli, cuoco provetto e grande mangiatore, è instancabilmente alla ricerca di ristoranti in giro per il mondo.
Informa quindi la figlia tramite Skype che, nei pressi di Turnpike Lane (un paio di km da casa nostra), esiste un ristorante Polacco che fa take away gratis.
Kalinowski si eccita e i suoi occhi si spalancano e brillano, inizia ad agitare le braccia in aria e il culo in faccia ai presenti.
Dopo averlo sedato con un fucile da guardiani di zoo, gli facciamo chiamare il ristorante.
La prima cosa che ci da immediatamente prova dell'autenticità del locale è il fatto che al telefono rispondono subito in polacco. Frega un cazzo a loro che sono in Inghilterra.
Segue un lungo dialogo nella strana lingua indigena piena di "sch" e "sc", che pare la lingua dei serpenti su Harry Potter.
Il tipo delle delivery arriva dopo un'oretta a cavallo di un anaconda e sull'uscio della porta assistiamo ad un breve discorso nella lingua dei serpenti fra lui e Kalinowski. Un discorso pieno di “tak”, che a quanto pare significa tipo “si”.

La quantità di cibo che ho acquistato per sei pound e novanta è incredibile. Prima di tutto una fettina di maiale panata delle dimensioni dell'Emilia Romagna. Segue foto per zittire gli scettici:



Tanto per dire, insomma.

A seguire patate con erba cipolline (tre palle da biliardo) e una vasca di quella che mi piace definire la Felicità: una specie di crauti con carota. Insalata di cavolo marrone, così è scritto sul menù.
Posso mangiarne a quintali di quella merda. Kalinowski non riesce a finire la sua, la ripone nel frigo.
Io sono accecato dalla libido. Sudo e rido. Aspetto che se ne vada in camera e gliela rubo dal frigo.
Ebbro di cibo e birra polacca me ne vado a dormire. Felice. Ladro invincibile e sazio di vita.

Poi, alle quatto di notte, mi sveglio.

Io non ho mai problemi a digerire, sia chiaro a tutti. Mai. Posso mangiarmi un bue con le corna e gli zoccoli. Posso mangiare sabbia e cagar cemento. Posso deglutire una panna cotta senza masticare o muovere la bocca.

Ma mi sveglio. La bocca è secca come la sabbia di una spiaggia a Dubai.
Vago senso di malessere e disagio esistenziale.
Inizio a farmi una valanga di domande sull'effettiva utilità della mia esistenza, sul destino, sulla vita e sulla morte.
Intanto, nel mio stomaco, sta avvenendo una versione alternativa della Seconda Guerra Mondiale. Un “what if” devastante, testi di Garth Ennis. Nel mio stomaco la Polonia non viene invasa dalla Germania. Nel mio stomaco la Polonia agisce di contropiede e, cogliendo tutti di sorpresa, conquista il cazzo di pianeta.
Con furore e rabbia.
Con ninja. E dinosauri. E zombie.

E dinosauri zombie cavalcati da ninja. Ninja con il volto di Woody Harrelson.

Mille visioni simultanee colpiscono le pareti del mio cervello, rimbalzando e risucchiandosi a vicenda.
Trovo la forza di alzarmi e mi bevo una bottiglia da un litro e mezzo senza prender fiato.

Brancolo verso il letto, sudando. Tocco le coperte roventi con due dita.

E cado, come corpo morto cade.

giovedì 24 luglio 2014

MATTIA VS FOOD # 9



Come dicevo nella puntata precedente, sono sempre stato un ingordo pezzo di merda. Tra le mie varie, ripugnanti abitudini alimentari merita una menzione d'onore il vizio di bere dalla bottiglia.
Qualcosa di cui mia madre, poverina, non riesce a farsene una ragione.
Ogni volta che mi vede afferrare una bottiglia d'acqua dal frigo inizia subito con una lunga sequela di “MATTIA NON FARLO SCHIFOSO NON NON FARLO BASTARDO” e poi quando rumorosamente mi attacco al collo, bevendo in modo viscido e avido, mia madre scuote la testa e mette le mani sui fianchi “CHE SCHIFO MATTIA CHE COSA SCHIFOSA SEI VERAMENTE UNO STRONZO CHE STRONZO CHE SEI CHE SCHIFO”.

Questo rito io mia madre ce lo trasciniamo simpaticamente dietro fin da quando diventai capace di sollevare una bottiglia.
Una volta (avrò avuto si è no sei anni) avevo adocchiato una bottiglia di Fanta lasciata inconsciamente da mia madre vicino al lavandino della cucina.
Lei mi aveva visto guardarla dalle tenebre, come Vermilinguo guardava Eowyn sul Signore degli Anelli, ma stranamente non mi disse nulla.






Io aspettai pazientemente che arrivasse l'ora dello shopping e, attraverso potentissime macumbe voodoo, sperai fino all'ultimo che la mia dimentica progenitrice abbandonasse la preziosa bottiglia sul lavandino.

Così fu.

Non appena la porta si chiuse mi lanciai ruggendo e, stappando il tappo con gesto felino, mi attaccai al collo ebbro di potere.
Gettai tre lunghi sorsi prima di riconoscere che il sapore era un tantino diverso dalle aspettative.
Tipo che mancavano le bollicine.
Tipo che sapeva di olio extravergine d'oliva.

Tipo che ERA olio extravergine d'oliva.



 

La perfida bottiglia arancione aveva fatto sì che, dalla distanza, l'olio fosse del tutto simile alla desiderata bibita gassata.

Volli morire. Mi lavai i denti sette volte. Cagai altrettante volte.
Ma la cosa non mi spezzò. Non mi lasciai piegare da quell'incidente.

Oggi, dall'alto dei miei ventisei anni, sono ancora un orgoglioso bevitore dal collo delle bottiglie.

Ma non piangere, madre. 

martedì 8 luglio 2014

MATTIA VS FOOD # 8: IL CHICCO DI RISO



Il mio rapporto con il cibo e l’autocontrollo è sempre stato abbastanza difficile. Il che significa che fin da piccolo sono sempre stato un avido, ingordo figlio di puttana.
Questo ricordo risale a quando avevo più o meno sette anni, e con la mia famiglia ci eravamo appena trasferiti a Perugia.

Mamma ha appena fatto l’insalata di riso per la cena. Sono le quattro di pomeriggio e l’insalatiera, delle dimensioni del Lussemburgo, giace nel frigorifero, pronta per essere divorata al calare delle tenebre.
Io, dall’inizio della preparazione, già adocchio il mix da insalata, quello gustosissimo pieno di pannocchiette, capperi, olive e quant'altro.
Avvolto nell’ombra, sibilando e sbavando, giuro a me stesso che quel condimento sarà mio. Prima di cena.
Inizio a studiare tutta una serie di piani fantasiosi su come arrivare alla ciotola senza che mia madre mi redarguisca. Purtroppo molti di questi comportano l’uso di dinosauri o la morte di Mamma.

Sto per demordere quando il destino accorre in mio soccorso: mia madre mi annuncia che dovrà andare a fare la spesa con mia sorella, lasciandomi solo per una mezz’oretta.

AH. 

Andate pure, femmine, ad arricchire il paese della sterlina. Fuori da questa casa, sciocche donnette, con la testa piena di vezzi e sciocche superstizioni.
Lasciate Mattia solo. Solo con l’insalata di riso.

“Fai il bravo!” Dice mia madre mentre esce.
La porta non fa in tempo a fare CLAC che io sono già con la testa dentro il frigorifero. Attingo all’insalata di riso senza ritegno. Con le mani.
Al terzo boccone che inghiotto senza respirare, però, un chicco di riso mi si blocca in gola.
Inizio a tossire. Forte.
SEMPRE PIÙ FORTE.
Provo a bere dell’acqua ma nulla cambia. Il chicco è lì, lo sento.
Prigioniero del panico più nero, inizio a piangere, già vedendomi nel futuro molto prossimo in una cazzo di bara, con un gruppo di vecchiette piangenti ai lati che dico “era tanto un bravo ragazzo”.




Mi siedo, cerco di calmarmi fra le lacrime, ma il chicco sembra essere ancora lì. Cazzo ne sapevo io che l’uomo ci mette tipo tre secondi a deglutire completamente.
Esco di casa singhiozzando in cerca di aiuto. Dalla casa dei vicini sento delle voci. Mi ci fiondo.
Busso alla porta e il capofamiglia apre. Per poco non gli prende un colpo. Mi fanno sedere, mi calmano e mi offrono un bicchiere d’acqua.

Mia madre, quando mi venne a prendere dai vicini, si limitò a stare in silenzio. Io tenevo gli occhi bassi, ma non rimpiangevo la scelta.


Lo shock di quel pomeriggio fece si che io digiunassi, evento che accade ogni morte di Papa nero.

domenica 22 giugno 2014

MATTIA VS. FOOD # 7: LA FONTANA



La puntata di oggi si spingerà ben oltre l’ambito solido, inoltrandosi nelle disavventure collegate al mondo delle bevande.
Voi dite, ma come? Non ti bastava essere un immondo maiale quando mangi? Pure quando bevi devi fare schifo?
Perdonatemi, ma sono un uomo di scienza. Devo esplorare tutti i limiti del mio corpo. 


E, se questo comporta essere un tombino, mi immolerò per il bene della ricerca.

Insomma ce ne stiamo io, Edino, Ludobambino e Francesco a Chiavari, un posto sperduto nel nulla ligure. Avevamo deciso di festeggiare capodanno con degli amici dei fratelli Röhl e, raccolti attorno al fuoco, facciamo quello che i ragazzi della nostra età fanno: giochi idioti.
Giochiamo a carte insieme ad un personaggio di tutto rispetto, tale Giako: esso è infatti un cristiano di un metro e novanta, con barba e capelli lunghi. Addosso una maglia con disegnato un gladiatore e delle pantofole di Winnie the Pooh. Ah, e un cappello alla Davy Crockett.
“PALLA DI FUOOOOCO”, urlava il suddetto, quando lanciava le carte sul tavolo.
I ragazzi che ci ospitavano hanno investito buona parte del budget di fine anno in coca cola, the al limone e crema di whiskey. Il tavolo è infatti invaso dalle bottiglie, rendendo la partita difficoltosa. Come difficoltoso è individuare il perché della peculiare scelta di bevande. Ma stiamo comunque parlando di gente che ha addosso pantofole di Winnie the Pooh e cappelli alla Davy Crockett.


Doveroso è ora raccontarvi delle mie particolare abitudini legate all’assunzione di liquidi: io non bevo durante il giorno. Quasi mai. Soprattutto mai durante i pasti. Quando bevo, però, mi tracanno due litri d’acqua a botta come i cazzo di cammelli.
Anche in quel momento, infatti, io afferro un boccale da birra e mi sparo, in rapidissima successione: una pinta di the al limone, una pinta di crema di whiskey e una pinta di coca cola.
Afferro il mazzo di carte e subito mi rendo conto che qualcosa non va. Lo stomaco sembra bollire dall’interno. Per farvi capire come il mio corpo si sia sentito in quel momento, infilate delle mentis in una bottiglia di coca cola e provate a tenerla tappata.


“Devoandareinbagnoscusate” dico tutto d’un fiato, mentre scappo verso l’agognata tazza.
Non faccio in tempo ad alzare la tavoletta che accade, fondamentalmente, quello che accadrebbe a voi se riempite un palloncino d’acqua, gli fate tre o quattro buchi e poi lo premete fortissimo:



La pressione derivata dalla devastante reazione chimica che stava avvenendo al mio interno fece sí che mi trasformassi in una potente pompa di vomito. Dal naso e dalla bocca insieme, tipo un posseduto.

Riconosco però che la sensazione generale finito tutto fu abbastanza piacevole. Mi sentivo svuotato e, in qualche modo, depurato.

Una catarsi.

domenica 8 giugno 2014

MATTIA VS FOOD # 6: IL MATRIMONIO DI GABRIELE



Adoro i buffet. Si instaurano sempre strane dinamiche sociali, attorno ad essi. Si avverte molto più il nostro essere, alla fin dei conti, delle bestie.
Ogni invitato si lancia sì sulle pietanze, ma i suoi occhi son spesso rivolti agli altri, in un’atavica, profonda paura del pasto rubato.
I più deboli vengono immediatamente riconosciuti e sopraffatti, e devono aspettare molto tempo prima di poter mangiare qualcosa. Li si può osservare confinati ai lati della folla, in piedi, con il piatto vuoto, stirando il collo per cercare un passaggio, uno spiraglio in quel muro umano.
Alcuni provano ad allungare una mano e cercano di arraffare una tartina di straforo, ma vengono inevitabilmente beccati e redarguiti dalla folla a suon di “Ma non vede che c'è una fila?”.
Vengono quindi allontanati nuovamente ai margini del banchetto, in un limbo di acquolina, fame e vergogna.
Molti di questi poveri derelitti non arrivano al dolce. Si impiccano prima all’albero più vicino. O ad un lampione. O ad una trave.

Non c'è spazio per i deboli a questo mondo. Men che meno ai buffet.

Dopo questa gioiosa premessa mi lancerei, con il vostro permesso, a raccontare dell’ultimo, devastante buffet a cui ho avuto il piacere di partecipare. Il lieto evento in questione era il matrimonio di Gabriele e Laura (a cui rinnovo i miei auguri).
Cornice della festa era un agriturismo poco distante da Osteria Nuova, nel nord di Roma. Il posto era assolutamente spettacolare: un borgo medievale (con tanto di chiesa) abbarbicato su una collina. Ai piedi di questa un pascolo con un gigantesco fontanile e, su un’altra collina, il grande casale che ospitava il ristorante.
Parcheggiamo la macchina e veniamo portati in loco da una spassosissima macchina elettrica (tipo quella da golf, per intenderci).
Lì veniamo ammansiti a colpi di prosecco e cocktail analcolici, mentre il servizio catering apparecchia il buffet e accende il fornello sotto una gigantesca padella di frittura.
Io immediatamente penso alla frittura di mare e inizio a sciogliermi dal piacere, come il giudice su Chi ha Incastrato Roger Rabbit.
Purtroppo (o per fortuna) la frittura in questione si trattava di zucchine e melanzane + delle foglie di salvia impastellate delle dimensioni di un comodino IKEA.
La folla, ruggendo, si lancia sul buffet.
Io, serio e rodato esperto del settore, aspetto che il primo muro di folla si accalchi. Dovete sapere che c’è sempre qualcuno che si sbaglia. O che arriva in un punto dove non c’è nulla che lo interessa, e si deve spostare. Cogliete quel momento con occhio vigile e, non appena si crea il buco, ZAC! 
Buttatevici dentro.
Una volta di fronte alle pietanze, ricordate sempre di non sorridere mai. Chi sorride viene immediatamente sopraffatto dai parenti più forti, o dalle persone che non si conosce bene.
Assumete un espressione seria, corrucciata. L’espressione di chi comanda eserciti e dirige industrie, di chi non ha tempo da perdere, di chi non può aspettare.
I più deboli si faranno abbindolare, e cederanno il passo.
Capiterà però di incontrare altri PDB (Professionisti Del Buffet) e li la cosa si complica. Quella è gente rodata, che non si fa abbindolare da nessuno. Potete quindi utilizzare due strategie diverse:
1) Deviate l’attenzione: guardando alla loro destra, sgranate gli occhi come se qualcosa di assolutamente imperdibile sia stato appena aggiunto al buffet. Se non sono veri campioni, cederanno per un attimo e guarderanno in quella direzione. È quello il momento per, viscidamente, rubargli il cibo da davanti.
2) Parlateci: Questa è una tecnica disperata e conosciuta solo dai Gran Maestri PDB. Attaccate bottone con frasi tipo “Ma tu non sei il fratello/sorella della sposa/sposo?”. Interrompete il loro contatto visivo con il cibo. Mentre vi guardano e vi rispondono, continuate ad arraffare cibo e buttatevelo nel piatto. Non muovete le spalle, fate solo lavoro di polso. Continuate a parlare e sorridere.

Forte delle mie conoscenze e della mia faccia di bronzo, mi faccio largo fra i commensali e arraffo l’ottima (anche se un po' unta) frittura preparata sul momento, torte rustiche, ricottine al forno, salumi e formaggi vari. Insomma, ogni ben di Dio.
Alimentati a prosecco saliamo tutti vispi le scale che portano alla sala da pranzo. Io e la zia di Francesca, entrambi nel campo della ristorazione, per deformazione professionale iniziamo a controllare i livelli igienici del locale e dello staff.
Si parte con il primo: ravioloni alla ricotta con crema di formaggi e pomodorini pachino alle erbe. Deliziosi, me ne faccio due piatti.
Il cameriere, indisposto dalla mia incredibile bellezza, mi ignora.
Il secondo primo è, mi duole ammetterlo, non straordinario quanto la prima portata: una pasta tipo strozza preti con sugo ai funghi porcini e bacon croccante. Me ne mangio due piatti, tanto per non farlo sentire da meno.
Il secondo è, come avevo accennato brevemente in un post di una settimana fa, una gamba di vitello. Il che significa che quattro camerieri hanno trasportato in sala una GAMBA DI VITELLO di un metro e mezzo, accompagnata da patate arrosto e verdure.
Veramente, veramente deliziosa. Ne mangio tre piatti e inizio ad avere serie difficoltà respiratorie. Approfittando della mia momentanea debolezza, l'odioso cameriere passa e mi da una spallata. Io cerco di protestare, ma quello che emetto è molto simile ai versi delle grandi balene. Quelli che si sentono su National Geographic.
È ora tempo del buffet di dolci, una schiera di delizie brutalmente schierate su dei tavoli, in modo da finire i commensali ancora in piedi.
È ormai pomeriggio quando io, Francesca e Andrea (suo cugino), ci ritroviamo seduto ad un tavolino lontani dal gruppo. Io non è che mi sento proprio benissimo, la pancia sta cercando di strapparmi la camicia e, lontano, Gabriele mi sorride. Ma potrebbe essere benissimo qualcun altro, che la vista è sfocata. Colpa degli zuccheri.




Continuo a sorridere ebete, ubriaco di cibo, quando mi colpisce come un pugno la consapevolezza che dovremo spostarci presto in un altro luogo, dove la festa continuerà.
Un luogo dove ci aspetta un buffet di dolci, cornetti, pizzette e stuzzichini dello Zozzone, storico negozio romano famoso per la bontà dei prodotti ma non per la pulizia.

’Sti cazzi. 
Quel che non strozza ingrassa.

domenica 25 maggio 2014

MATTIA VS FOOD # 5: LE ZEPPOLE CON LE ALICI



Mia nonna è, come ogni donna del sud appartenente alla sua generazione, una cuoca eccezionale. Eccezionale significa che sfama ogni volta (si parla spesso del periodo natalizio) sette figli, sette nipoti, mogli e mariti dei figli e amici imbucati d’improvviso, per un totale di persone che si aggira spesso attorno a 25 / 30.
Mi hanno raccontato che mia nonna impastava 120 uova con un braccio solo. L’ho vista sollevare un armadio da sola. Il suo bicipite ha le dimensioni di un melone.
Mia nonna ha le palle, insomma.
Fra tutti i manicaretti che la suddetta sforna per sfamare il Clan, il mio preferito sono senz'altro le zeppole. Le zeppole non sono altro che la pasta della pizza (da sola o condita) fritta nell’olio.
A casa si mangiano solo e soltanto in tre versioni: semplici, al baccalà e alle acciughe.
La preparazione delle stesse è sempre un po' uno spettacolo: Nonna prepara una quantità illegale di pasta, utilizzando l’aiuto di una betoniera da cantiere. Quindi piazza al centro del garage sotto casa un enorme fornello alimentato ad energia nucleare e si dedica alla costruzione, attorno ad esso, di un bizzarro fortino fatto di lamiera.


Ecco, tipo.


Una volta che l’olio è caldo, nonna entra nel fortino e nessuno la vede più per ore. Esce molto tempo dopo tutta sudata e unta, i capelli appiccicati al cranio dall’olio vaporizzato.
Visto che nessuno può avvicinarsi a lei per via della puzza, la costringiamo a farsi il bagno in una vasca piena di idraulico gel e acqua di lavanda, mentre tutti gli zii la spazzolano con la carta vetrata.
Finalmente, una volta purificata nonna dai demoni della frittura, le zeppole vengono portate in tavola e il Clan ci si getta sopra con versi da suino.

Il mio problema arriva con quelle alle acciughe. Loro hanno guadagnato senz'altro la medaglia d'oro delle olimpiadi dei piatti con cui non riesco a fermarmi, sentendomi male.
Non posso. Semplicemente non posso. Da fan delle acciughe e da fan del fritto in generale, io non posso.
Ogni volta che ne sento anche solo l’odore gli occhi mi si ribaltano e inizio a parlare nell’oscura lingua di Mordor.
Una volta nonna mi chiama dal garage, che gli serviva una mano per portare su la prima vagonata di zeppole.
Quando la raggiungo di sotto noto subito che la teglia ha le dimensioni di una Fiat Punto e, da sotto il telo, un profumo intenso di zeppole con le alici.
Nonna esce con mezza desta dal bunker e una zaffata di olio e fritto ammorba l’aria, facendo appassire le piante della vicina.
Mi guarda e mi riconosce. Non voleva chiamare me. Lo sa cosa succede quando mi affida delle zeppole.

Dovete sapere che mia nonna, complice il fatto della numerosa famiglia, si sbaglia sempre non solo con i nomi dei figli, ma anche con i nipoti.
Capita quindi spesso che mi saluti dicendo “ciao, Livio”, mentre Livio è mio cugino che vive a Bologna.

Comunque nonna si accorge che aveva detto il mio nome ma probabilmente voleva chiamare tipo Michele, altro mio cugino, e subito l’espressione gli si fa scura.
“Che è nonna?” gli faccio io, fingendo di non capire.
“Non mangiarle.”, mi fa lei, lapidaria.
“No che non le mangio, nonna.”
“Giura”
“Giuro”
Giro l’angolo e, a metà strada fra il garage e la porta di casa, mi infilo nell’ombra e inizio ad infilarmi le zeppole roventi in bocca, scottandomi.
Una visione degradante, inquietante e avvilente.
Un uomo di merda, infrangi promesse e spezza-cuori-di-nonne.

Ma non è colpa mia.

Sono le zeppole. 

sabato 10 maggio 2014

MATTIA VS FOOD # 4: BUTH JOLOKIA



Mio padre è un appassionato del peperoncino. Appassionato significa che se lo coltiva sulla terrazza della sua casa a Salerno, facendosi spedire semi e piantine dall’Iran, dall’India e dai più disparati paesi d’oltreoceano.
Poi, lui e i suoi amichetti, organizzano sedute di assaggi devastanti, in cui si divertono a bruciarsi gli intestini a vicenda.
Ma tanto lui è medico, cazzo gli frega.

Un annetto fa mi spedisce un pacco contenente peperoncini da ogni dove e in ogni forma: semi, peperoncini interi, sott’olio.
In una busta vi erano quattro o cinque Buth Jolokia.
Comunemente chiamato “Ghost Chilli”, il Buth Jolokia si pone tipo al terzo posto nella lista dei peperoncini più letali al mondo, con le sue 1.200.000 unità Scoville.
La Scala Scoville è quella usata per la piccantezza e, per darvi un'idea, un piccantissimo peperoncino calabrese ha tipo 30.000 Unita.

Una bella sera ce ne stiamo nel salotto della vecchia casa di Hornsey Park Road a ridere e scherzare, quando a me e Medha (una nostra ex coinquilina indiana) ci viene in mente una di quelle sfide che dovrebbero essere vietate dalla legge e combattute dall’ONU.

“Perché non ci mangiamo un Buth Jolokia intero???”

Tutti i presenti si siedono comodamente sui divani, mentre io e Medha rimaniamo in piedi di fronte a loro.
Infiliamo il cazzo di peperoncino in bocca e iniziamo a masticare.

Nulla.

“Ahah non è piccante! Che cagata!”, iniziamo a fare gli spacconi, masticando bene i semi e inghiottendo fino all’ultimo pezzetto.

Poi la botta arriva. Arriva sotto forma di un crampo addominale potentissimo che quasi rischia di farmi cagare addosso.
Sento fiamme invisibili avvolgere il mio corpo. Gli addominali iniziano a contrarsi da soli senza il mio volere e i suoni si fanno ovattati.
Medha scappa in cucina urlando “È COME MANGIARE IL CAZZO DI SOLEEEEEE”
Io provo a bere ma non cambia nulla. Cercano di farmi bere del latte ma non riesco a deglutire.
Non posso muovermi, non posso parlare, non posso deglutire.

L’inferno.

Riesco, con l’aiuto di Francesca, a fare una rampa di scale e ad entrare nel bagno.
Con orrore guardo il soffitto e capisco di avere le fottute allucinazioni: la parete bianca sembra sfondarsi e salire, salire, salire all’infinito.

Tutt’attorno è silenzio.

Esco dal bagno non so nemmeno quanto tempo dopo. La notte, inutile dirlo, l’inferno. Cerco di dormire ma, dentro lo stomaco, ho una massa bollente e pesante ed enorme.
Mi sento come se avessi mangiato un barbecue acceso.

Inutile dire cosa successe quando andai a cagare.



sabato 26 aprile 2014

MATTIA VS FOOD # 3: IL SUSHI DI SATANA



Io ho un problema con il sushi.
Una patologia.
L’ho ammesso da tempo a me stesso.
Rientra a pieno titolo in quella categoria alimentare che disattiva i miei sensori della sopravvivenza e mi induce ad ingoiarne quantità devastanti.
Poi, semplicemente, esplodo. 

Come i rospi.

Quando a Perugia il sushi arrivò per la prima volta, complice il ristorante Tokyo dietro l’Università per gli Stranieri, l’unica cosa che mi salvò da morte certa fu il prezzo non proprio accessibilissimo.
Diciamo non un ristorante da mangiarci ogni sera, ecco.
Grazie al cielo.
E comunque, ogni volta che ci andavo a mangiare, per saziare la mia fame ancestrale se ne andavano almeno una sessantina di euro in pesce crudo.

Poi venne il giorno.

Ero a Terni, ospite di Edino, Ludo il bambino muscoletto e il prode Francesco. Verso sera decidiamo di fare quello che di solito raramente facciamo: uscire di casa, socializzare, aprirci al mondo e tutte quelle cose che, Dio li perdoni, i giovani fanno.
Edino mi accenna che hanno aperto un locale al quale, per un prezzo fisso, puoi mangiare tutto il sushi che vuoi. 
In quell’esatto momento, a Perugia, mia madre inizia a piangere senza sapere perché.
Io penso di aver capito male e chiedo conferma ad Edino. Lui annuisce e sorride, come il padre che annuncia al figliolo che gli hanno aperto Disneyland sotto casa.
Lancio un urlo da Nazgûl e, cavalcando un cavallo nero, galoppo alla volta del locale. Spendo, quella sera, 18 euro.
Mangio l'equivalente in euro del costo di una Maserati di seconda mano.
Non calcolo, accecato com’ero dal poter finalmente mangiare sushi fino a scoppiare, che il cibo del locale è di qualità infima, probabilmente frutto di riciclaggio immondo di cadaveri.
Il primo che si accorge del mio star male è Francesco, infatti prima mi guarda e io sto così:


Poi alza di nuovo lo sguardo dal piatto e mi vede così:


“Mattì?” Mi chiede piano il mio amico, spaventato dal fatto che non sono mai in reali difficoltà con il cibo.
Il buon Francesco mi accompagna fuori a prendere una boccata d'aria, io lotto con tutte le mie forze per non vomitarmi gli intestini.
Corriamo a casa dove Stefania, la madre di Edino, mi salva sparandomi del bicarbonato in gola con un fucile da soft air.

Morale: diffidate del sushi di cattiva qualità.

domenica 13 aprile 2014

MATTIA VS FOOD # 2: CHILLI CON CARNE CON MORTE




Si dia il caso che la mamma di Jack, la Signora Paola, sia una cuoca eccezionale. Sia nella qualità che nella quantità. Dopo aver passato anni ad assaggiare manicaretti cucinati live o spediti al figlio (nel tentativo disperato di fargli mangiare qualcosa che non sia aria) posso tranquillamente certificare che il miglior piatto della Paola è il chilli con carne. Delizioso e con un contenuto calorico simile a quello di una balenottera azzurra. È uno di quei piatti che ti controllano il cervello e disattivano dentro di te quel fattore sopravvivenza che ti fa smettere di mangiare, impedendo quindi al tuo stomaco di esplodere.

Fatto sta che una bella sera io e Jack ci troviamo in quella situazione molto comune ai tempi, in cui io mi trattenevo a casa sua fino al tardo pomeriggio, lui mi invitava a cenare e concludevamo la serata in maniera bohémien, ossia devastandoci tramite alcolici di sorta.

Paola, il giorno prima, aveva cucinato il chilli nelle quantità tipiche di una madre abruzzese, ossia dentro una pentola simile ad una betoniera. Jack si serve una porzione ridicola, utilizzando delle pinzette per sopracciglia e un contagocce per il sugo, io mi lancio praticamente dentro la pentola, grugnendo come un facocero nella stagione degli amori.
Ne mangio tanto. E con tanto intendo che verso i novecento grammi di chilli consumato Jack inizia con le noiose tiritere tipiche delle persone anziane tipo “basta, ti fa male, perché devi fare lo stupido?”.
Io continuo, ustionandomi il palato con il sugo bollente e allontanando Jack con manate e calci.

Forti delle calorie ricevute e di una temperatura interna simile al nucleo della terra, decidiamo di uscire. Io, sudato e sfiancato dalla grande mangiata, esco indossando solo una camicia semi abbottonata.
Mentre ci inerpichiamo per i vicoli perugini un vento gelido si incanala fra le vie anguste e ci soffia potentissimo in faccia. Io inizio ad accusare lo sbalzo termico, e sento la testa che mi gira e i rumori ovattati.

Ci beviamo due Crest a testa e torniamo a casa, rinunciando alla serata per via del freddo inaspettato.

A casa ci mettiamo, tra una sigaretta e l’altra, a guardare vecchie foto e a raccontarci storie. Quand’ecco che Jack si accorge che io sono del bel colorito tipico dei cadaveri dei morti annegati. Sto sudando freddo e le mie labbra sono di un affascinante viola perlaceo.
Jack si spaventa e cerca di assistermi, io mi alzo di botto e sentenzio:

“DEVO CAGARE.”

... E corro in bagno. E lì accade una cosa poco piacevole: il mio corpo, per evitare di collassare allo sbalzo termico pancia bollente/vento gelido, decide di svuotarsi di liquidi e feci contemporaneamente. Mi ritrovo così simpaticamente a defecare nel cesso e vomitare nel bidet. Un’esperienza che non auguro a nessuno. La parte positiva è che sono sopravvissuto e ho capito perché non bisogna scherzare con le congestioni.



lunedì 24 marzo 2014

MATTIA VS FOOD # 1: IL MATRIMONIO DI MIO CUGINO




Sono sempre stato una buona forchetta. Mio padre racconta che a due anni riuscivo a mangiarmi una spigola da ottocento grammi da solo. Mia madre dice che da neonato bevevo oltre nove biberon di latte al giorno.
Devo dire che sono stato aiutato molto dal fatto di essere nato in Campania, dove i bambini che non mangiano come adulti vengono ritenuti deboli e quindi lanciati in un dirupo.
Crescendo ho costantemente messo alla prova il mio stomaco e il mio coraggio. Alcune di queste situazioni hanno del surreale, dello spaventoso o del disgustoso ed io, nuova icona del web intellettuale, mi son detto: “perché non raccontare ai cari fedeli che seguono il mio blog alcune di queste storie?”
Beccatevi quindi una storiella nuova nuova, prima puntata della nuova rubrica Mattia VS Food: 

Un anno fa circa un evento eccezionale sconvolse la routine del grande clan che è la famiglia da parte di mia Madre: una confraternita di folli, sette fratelli completamente pazzi contornati da figli, nipoti, pronipoti e chi più ne ha più ne metta.
Insomma un bel giorno Livio, il più anziano dei nipoti di mia nonna (mio cugino quindi), annuncia alla famiglia la sua volontà di sposare Alessandra, la sua ragazza.
Gaudio e urla tra i presenti, lacrime da tutti i membri femminili della famiglia e mia nonna che cade in una profonda trance in cui inizia a scagliare potenti benedizioni a sfondo cristiano, lanciando acqua addosso a tutti.
Il matrimonio viene subito atteso con grande fermento, in quanto una delle poche occasioni in cui il clan si può ritrovare al suo completo. Trattasi quindi di una quarantina di persone, se non più.

Subito io e Michele (fratello di Livio e altro eccezionale mangiatore), ci focalizziamo sulla parte a noi più cara dell’evento: il buffet. Riusciamo ad avere in anteprima il menù che verrà presentato e decidiamo come agire strategicamente per dare il meglio di noi quando il momento di gettarsi sul cibo arriverà. Michele suggerisce un giorno di digiuno di preparazione. Poi io mi lancerò sulla tavolata con due materassi a due piazze e, utilizzandoli come vassoi, ruberò tutto il possibile mentre mio cugino terrà lontana la folla mulinando in aria la sciabola per tagliare il prosciutto.

Quando il grande giorno arriva la prima cosa a stupirmi fu la location: mio cugino aveva affittato un cazzo di castello delle favole. No dico, una cosa mai vista: ENORME, CON MURA, TORRI E TUTTO IL RESTO.
Segue la solita, lunghissima sequela di saluti a parenti che uno non vede mai, e tutti giù a dirti quanto tu sia stronzo che non ti fai sentire mai, che sei dimagrito, che sembri tuo padre.

La tavolata degli antipasti è qualcosa che fino ad allora avevo visto solo su film e magazine di cibo: prosciutto tagliato a mano da un cameriere ninja di servizio, bocconcini di mozzarella di bufala, gamberoni selvaggi, insalata di polpo e prugne, pizze, zeppole, tartine di ogni tipo, parmigiano, taglieri di formaggi, mieli, marmellate, fritti misti di verdure e pesce. Io e mio cugino ci lanciamo sulle pietanze accompagnati dal verso del giaguaro tipico dei film anni ’70.
Spazzoliamo due vassoi a testa di ogni singolo antipasto. OGNI. SINGOLO. ANTIPASTO.
Seguono quindi tre primi devastanti e buonissimi, durante i quali ci viene incessantemente servito vino (rosso, bianco, rosé) da dei camerieri ombra con le mani guantate di bianco.
È dunque l’ora dei secondi, anche loro tre, tra cui spiccavano delle meravigliose mezze aragoste ripiene. Io ne mangio due. Poi, mentre già gran parte della sala veniva rianimata a colpi di bicarbonato, un cameriere emerge dalle cucine con un vassoio delle dimensioni di una Fiat Punto. Su di esso, schierate come soldati, le aragoste avanzate dal servizio.
“Qualcuno gradisce il bis?”, chiede il brav’uomo.
Io sento, per la prima volta nella serata, quella voce che risponde al nome di buon senso che mi dice: "Mattia, fermati. Non ci sarà ritorno da dove stai precipitando. Questa volta ci lasci le penne".
Io scaccio la noiosa voce precisina e la mia mano si alza, unica in tutta la sala.
“IO VOGLIO”, dico al cameriere, ormai incapace di parlare l’italiano in maniera coerente. Il mio sguardo è quello spento e corrotto di Theoden quando era assoggettato da Saruman.
Mangio altre tre mezze aragoste. Bevo altro vino. Rubo un qualcosa che non ricordo dal piatto di un mio altro cugino. Mia madre mi vede e piange.

Ad un tratto una tizia con guanti bianchi spunta dal nulla e dice, con voce candida: “si invitano tutti gli ospiti a recarsi nell’ala est del castello, dove ci sarà un buffet di dessert.”

Io, ormai con serie difficoltà respiratorie, striscio schifosamente tra i corridoi e gli arazzi e raggiungo il Nirvana: immaginate un corridoio medievale con TUTTI I CAZZO DI DOLCI DEL MONDO serviti su vassoi o addirittura (come nel caso dei cannoli siciliani) fatti sul momento da dei pasticcieri di servizio.
Una tavolata di frutta di ogni tipo, dalle mele alla papaya, circondava una fontana di cioccolata al latte a tre piani. Il mio buon senso tenta un ultimo, disperato tentativo: “MATTIA PENSA A TUA MADRE E TUA SORELLA NON FARLO!!! MUORI SE CONTINUI, CAZZO!”
Io apro la bocca e, insieme ad un rivolo di bava e succhi gastrici, esce il sibilo tipico di chi ha qualcosa bloccato in gola. Rubo un vassoio di argento e afferro un dolce per ogni tipo. Stiamo parlando di un venticinque assaggi. Esattamente come fanno gli animali che sanno di dover morire, io abbandono il branco: trascino una poltrona all’aperto, all’ombra di un grande albero, e inizio a mangiare lentamente i dolci. Al terzo dolce capisco che forse sto morendo, perché ho gli occhi aperti ma vedo buio. Mi spavento e lascio cadere il vassoio a terra.
Attendo nell’ombra l’arrivo della Oscura Signora, sibilando e sbavando. 
“Ecco”, mi dico, “vado dai miei padri, nella cui gloriosa compagnia ora non dovrò più vergognarmi.”

Invece, come avrete intuito, sopravvivo alla terribile, sfibrante digestione della notte. 
Complice un Montenegro e tanta, tanta fortuna.