Piero da Pollo's festeggia la sua undicesima, gloriosa puntata raccontando un episodio un po' inquietante e abbastanza fuori dal comune. Pronti? Carichi? Tenete a mente che Piero non sono io e via, si va!
La sera si accartoccia sulle livide superfici dei palazzoni del centro di Londra. L’acciaio e il vetro riflettono le immagini degli ultimi londinesi che si affrettano verso casa. Da Pollo’s si inizia ad avere un po' di respiro, prima della grande ondata della sera.
Io me ne sto alle casse, senza un granché da fare, servendo clienti sporadici.
Quando d’un tratto entrano. Lei una minuta signora sulla cinquantina, occhi azzurri e profondi. Occhi che avevano conosciuto la felicità, ora velati da un velo di paura. Si sfregava le mani fra di loro, nervosa.
Accanto a lei, lui:
Immaginatevelo una versione più alta dello zio Vernon di Harry Potter. I suoi occhi azzurro scuro erano spalancati come oscene voragini. Occhi che cercavano, cercavano, cercavano.
Faccio per attirare la sua attenzione quando un mio collega li accompagna al tavolo, e la cosa finisce momentaneamente in sordina.
Cinque minuti dopo appare il Maestro.
“Piero, hai sentito?”
“No, Maestro. Cosa?”
“C'è un fremito nella Forza, Piero. Lo sento. Qualcosa di oscuro, antico e pericoloso è stato svegliato!”
“Dove, cosa?”
“Il tizio al tavolo. Quello grosso. Quello con gli occhi pericolosi!”
“E quindi, Maestro?”
“Beh io avverto che...”
La visione viene interrotta dal mio manager che mi dice di andare a prendere l’ordine di un cliente che stava aspettando alla cassa.
Mi giro e, davanti al bancone, c'è lui.
Buongiorno, dico io, e lui non dice nulla. Sorride e le labbra scoprono una lunga fila di denti piccoli e bianchissimi. Denti da pesce predatore.
“Voglio delle olive, per cortesia”, dice lui. La sua voce è come miele avvelenato. Un grande male si agita dietro le sue parole.
Ricevo i soldi e gli do le olive.
Dal tavolo la moglie mi lancia uno sguardo di terrore, prima che il bruto la raggiunge e lei si vede costretta ad abbozzare un sorriso nervoso.
Dopo un cinque minuti mi avvicino al tavolo chiedendo se il cibo era di loro gradimento. Lei abbozza un “si”, ma i suoi occhi sono quelli di una preda. Lui è completamente rapito dal pasto, a malapena risponde. Una kefiah rossa gli copre la schiena come un mantello.
Non ho mai incontrato una persona tanto inquietante in due anni di carriera da Pollo’s.
Stacco.
Sono quasi le nove quando l’omone inquietante approccia la cassa. Ordina una bottiglia di vino rosè e vuole pagare con la carta. Io lo guardo negli occhi e vedo solo male. Non la solita mescolanza di luce e tenebra di cui da sempre è costituito l’essere umano.
Solo puro, cristallino male.
Scatta allora il gioco che spesso mi diverto a fare quando lavoro da Pollo's: cerco di indovinare la nazionalità di un cliente e poi, se paga con la carta, sbircio il nome su di essa, controllando se ci avevo azzeccato.
Guardo la carta.
E rabbrividisco.
La carta è intestata a Mr. E. Hyde.
Non sto scherzando, giuro.
Alzo gli occhi e lui mi sta guardando. Lui sa. Mi sento impotente, abbandonato, in pericolo.
Mi sento perduto.
Concludo il pagamento e lui si allontana con un sorriso che gronda promesse di oscurità.
La sera torno a casa e la mia ragazza mi chiede che è successo, che sembro scosso.
“Nulla.”, rispondo io.
E serro la porta.
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