Sono sempre stato un ragazzino dotato di grande immaginazione. Questo mi ha garantito un folle divertimento nonostante guardassi pochissima televisione. Mia madre, infatti, pur di tenermi lontano dall'odiato schermo accettava di malincuore che io costruissi armi ed ordigni, o pitturassi sulle pareti, o mi arrampicassi in luoghi pericolosi.
Non che io sia mai stato un pericolo per gli altri, sia chiaro. Anzi, la maggior parte delle volte me ne stavo chiuso in casa a disegnare.
Tuttavia, soprattutto durante le vacanze, la mia curiosità mi trasformava in un piccolo, intrepido esploratore. Ero continuamente, instancabilmente interessato da quello che mi succedeva attorno. O che stava accadendo un po' più avanti. O due spiagge più in la.
Mia grande passione era l'esplorazione marina. I corsi di nuoto che mia madre aveva fatto fare a me e mia sorella mi avevano trasformato in un nuotatore provetto e mi muovevo con grande sicurezza tra onde alte e correnti sottomarine.
Succedeva quindi che io mi infilassi la maschera e mi lanciassi in continua apnee, alla ricerca di conchiglie, sassi particolarmente belli o qualsiasi cosa mi capitasse a tiro.
Una volta ce ne stavamo io, mia madre, mia sorella e alcuni amici nei pressi di Otranto, se non ricordo male. Non facciamo in tempo ad arrivare in spiaggia che io adocchio un isolotto a un centinaio di metri dalla riva.
Inutile dire che diventa immediatamente la mia metà del giorno.
Approfittando dello spesso strato di crema solare che ricopre la mia pelle io scivolo come una saponetta, evadendo la stretta di mia madre.
“Non ti ho messo la crema sulle spalle!”, urla lei.
Io non la sento. Sono già sott'acqua con la maschera.
Un bel po' di bracciate e raggiungo l'isolotto. Inizio a nuotarci in torno, studiando un buon posto da dove arrampicarmi senza lasciarci pezzi del mio corpo.
Poi lo vedo: un lungo tunnel sottomarino con della luce dall'altra parte. Capisco che il canale attraversa la base dell'isolotto da una parte all'altra e, immediatamente, la missione suprema mi è chiara.
PRENDERE UN GRAN RESPIRO E ATTRAVERSARE IL TUNNEL TUTTO D'UN FIATO.
Così faccio. Un bel respiro e via, nelle profondità inesplorate.
Dopo un quattro, cinque bracciate mi rendo conto che il tunnel è molto più lungo di quello che sembra. Altra mezza dozzina e vedo solo roccia davanti a me. Il tunnel non era un tunnel. Era una “L” che partiva dalla base e sbucava in cima all'isola.
Allego un disegno per aiutare a capire meglio:
Vado nel panico perché non ho più riserve d'aria. Mi lancio nella risalita folle del cunicolo che si va restringendo. Sempre di più. Sempre di più.
La consapevolezza di essermi infilato in un imbuto di roccia che potrebbe essere troppo stretto alla fine per permettermi di uscirne mi accalappia le viscere, e mi cago addosso.
Ormai non ho più aria disponibile.
Noto con orrore che l'ultima parte del condotto è tappezzata di ricci di mare.
Non ho scelta. O un dolore atroce sconosciuto ai più, o una morte indecorosa senza ossigeno.
Mi lancio a missile verso l'agognata uscita, braccia lungo il corpo e occhi chiusi.
Per darvi un'idea di quello che ho provato, fate questo simpatico esperimento: comprate della carta vetrata a grana spessa, arrotolatela in modo tale che il lato ruvido sia all'interno.
Ora infilateci la mano con forza.
Ecco.
Ora moltiplicate il dolore per cento.
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