sabato 25 gennaio 2014

FUTURO DI BUONE SPERANZE



Devo dire di essere particolarmente eccitato dall'uscita delle console di ultima generazione. E sì, ciò significa che a breve cederò al lato oscuro della forza e apparirà, salutata da lanci di fiori e parate militari, una PS4 o XBox One all'interno del mio salotto. Molto probabilmente una PS4. E sottolineo il "molto", che io di avere un cazzo di occhio onnisciente sempre acceso nel salotto non ne ho nessuna intenzione, cara Microsoft.

Il fatto è che, da quando mi sono iniziato ad interessare del mondo videoludico, i prodotti sono stati talmente tanti e (alcuni) di tanta qualità che ho capito perché ormai viene investito molto di più nei videogiochi che nei film (e si vede, buon Dio).
Ormai la progettazione di un videogames come Red Dead Redemption prevede il coinvolgimento di centinaia di persone e un budget di un centinaio di milioni di dollari. Perché il videogames è diventato altro. È sempre stato altro, un media dove la partecipazione attiva del fruitore poneva le sue radici in concetti atavici e spesso inconsci.

L'immedesimazione. La paura. Il labirinto. L'identità.

Tutte quelle cose con cui dei tizi incravattati ti spugnettano per un’ora e mezza sopra ad un lettino e tu lasci la stanza tutto contento e con il portafogli molto, molto più leggero.
Avevo però notato che fino ad ora la fattura delle macchine da gioco non potevano, almeno a mio parere, fisicamente permettere di superare quella soglia.
QUELLA SOGLIA. Quel confine sottile in cui, soffocato, nascosto, si percepisce uno sconvolgimento dei giochi, delle regole, dei parametri.
Quel giorno in cui si passerà dal bonario “Anvedi 'sto gioco pare vero” al rimanere ammutoliti. Al guardare lo schermo impauriti e sospettosi, approcciandosi al media come bestie. Timorosi. Consci delle potenzialità di un qualcosa più grande di noi.
Di un qualcosa che non è statico, non è controllabile. Un mondo che si evolve, che ti stupisce, che si adatta.
Che, come simbionte, si adatta a te.

Questo grande preambolo per poter parlare di GTA 5, probabilmente uno dei videogames più complessi ed evoluti di sempre. E, fino ad ora, l'unico (oltre che, in minor parte, Red Dead Redemption) che mi abbia dato questa sensazione. Che il media avesse rotto una barriera.
Mamma Rockstar ci ha sempre abituato a giochi free roaming in cui il mondo proposto è immenso e articolato. Curato artisticamente in maniera maniacale. Vasto, brulicante, vivo. Ma con il quinto capitolo della saga in cui si rubano macchine e si spara alla gente ha completamente superato se stessa. La quantità di cose da fare è sconcertante. Le piccolezze, i dettagli, le sfumature di ciò che ci viene proposto da GTA 5 sono senza paragone. Ma la vera grandezza della Rockstar è stata colpire il nucleo, riuscire nell'impresa difficilissima del creatore di videogiochi: la costruzione di un mondo che si plasma attorno al fruitore. Che lo rapisca con la sua bellezza e lo spaventi con la sua violenza.

Tutto è reale, i personaggi sono reali, a partire da Mike, senza dubbio il mio preferito: un invincibile sfigato che si ritrova, a cinquant'anni suonati e dopo una vita di furti in banca, sballottato tra psichiatri e una famiglia da incubo. E Mike sa che la vita non è in quella casa lussuosa, nei discorsi ridicoli della moglie o di quella torretta di sua figlia, né tantomeno nelle stronzate da rapper di suo figlio. 
La vita è nella fredda, lucida camiciatura di un calibro 9.
La vita è in quell'attimo in cui stai per entrare in banca, passamontagna in testa e mitra in braccio.

Per non parlare di Trevor. Un pazzo vero. Ma non quei pazzi fighetti, tipo Vaas di Far Cry 3. Quei cattivi alla "Joker" di The Dark Knight, che i bimbominchia ci impazziscono e ci vanno travestiti a Lucca Comics.
Trevor è pazzo autentico. Qualcosa, nel suo cervello, è andata a farsi fottere e l'ha reso il più pericoloso, folle figlio di puttana di Los Santos. Indimenticabili i momenti in cui passi da un personaggio all'altro in quella spettacolare modalità Google Maps, e li becchi che stanno facendo altro. Nel caso di Trevor, sfasciare una chitarra in faccia ad un tipo. O svegliarsi ubriaco su delle rotaie di un treno.
Comunque, non è questo il punto. Non solo questo, almeno. Il gioco, dicevamo, si plasma intorno a te. Cambia. L'illusione di realtà, la simulazione d'esperienza raggiunge livelli paurosi.
 
Tanto per farvi capire, ero appena riuscito a scappare dagli sbirri dopo una strage indicibile a colpi di granate. Sfrecciavo sulla mia Dodge modificata mentre ascoltavo Johnny Cash. La città abbandonava i torpori dell'alba finta e si preparava al sole accecante di Los Santos.
“Sai che c'è?”, dissi fra me e me, “’fanculo le stragi, cazzo. Io mi vado a guardare il mare!”.
Guardare il mare. Mi era venga voglia di godere di qualcosa di bello. Del mare. Come se fossi sulla Salerno - Reggio Calabria.
Così lasciai l'autostrada e mi diressi verso l'orizzonte luccicante. Per chi non avesse mai visto la resa grafica del mare su GTA 5, lasciate il blog ORA e cercatevi un video su youtube. Poi continuate a leggere.
Rubo una barca a vela, scaraventando il proprietario in pasto ai pesci, e parto. La luce si frange tra le onde, posso vedere il verdognolo delle acque cristalline. Arrivo nel punto in cui ci sono tipo tre isole, di cui una più grande. L'acqua è perfetta. Da una delle tre isole sale del fumo, ma a me non importa. Forse un barbone, o un gruppo di fricchettoni accanto al fuoco.
Me ne sto li a guardare l'oceano digitale e fuori, nel mondo reale, il cielo vomita pioggia su Londra.
E io dal mio mondo a guardare l'altro mondo.
Io di qua e lui di la.

Tanto di cappello a mamma Rockstar, creatrice di opere videoludiche che si possono godere come si godono i quadri.

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