martedì 22 luglio 2014

PIERO DA POLLO'S # 17: L'INVASIONE SICULA



Benvenuti ad una nuova puntata della rubrica che crea acquolina in bocca, prurito anale, vertigini ed euforia incontrollata.
La vicenda che narrerò oggi è molto recente e, se io fossi Piero (ma non lo sono), mi sarebbe accaduta tipo un paio di settimane fa.


Uno dei lati positivi dell'essere manager è quello del trovarsi a stretto contatto con i clienti e, oltre ad allenare il tuo inglese e al sorbirsi una valanga di escrementi umani, anche nell'incontrare belle persone.
I classici clienti abituali, facce conosciute a cui aggrapparsi per rimanere a galla nel gorgo perfido della noia.
Uno di questi (e senz'altro il mio preferito) è un tizio di cinquant'anni, alto e smilzo, che a me piace chiamare “la Volpe”.
Costui, londinese DOC, ha raffinatissimi modi inglesi e un umorismo irresistibile, oltre a movenze gentili e un sorriso buono. Lo accolgo alla cassa, lui mi stringe la mano e mi chiede come va la vita.

Io gli rispondo che ancora respiro, gli riservo un tavolo e gli verso un bicchiere grande del vino rosso più immondo che serviamo da Pollo's.
A lui piace. Ne beve sempre quantità importanti senza mai però perdere il controllo, o diventare molesto, o inopportuno.
Si siede al tavolo e io non faccio in tempo ad assicurarmi che tutto vada bene che sento un fremito nella forza.
Guardo fuori nella piazza e le ombre della sera portano un presagio di sventura. I Crebain dal Dunland gracchiano in cielo, e le nubi si tingono di sangue.
Da lontano sento un berciare irriverente, accompagnato da una colonna sonora di mandolini, Italia, baffineri e pizzammore.
Il ristorante viene invaso da un'orda di siciliani. Marciano attraverso la porta come se dovessero invadere un altro stato. Si siedono da soli, rumorosamente, maleducatamente.
I bambini urlano. I genitori pure.
Un membro dello staff mi raggiunge. I suoi occhi sono carichi di un terrore antico.
“Piero ti prego”, mi supplica, “ci sono gli italiani.”
Io, maledetto dalle mie radici, mi trascino di malavoglia alla tavolata. Cerco di tradurre il menù ai miei compatrioti mentre loro, maleducatamente, mi interrompono più volte ponendo tre domande alla volta.
I bambini strillano sempre più forte, pronunciando empie frasi nel loro dialetto. Frasi poco gentili. Frasi che augurano al bambino vicino di praticare sesso anale con la propria madre.

L'imbarazzo, vero padrone della situazione, mi artiglia le viscere come un'immondo demone.

Prendo il loro ordine alla casa, buttando nel cesso quindici minuti del mio preziosissimo tempo. La serata si trascina trasformandosi in un'accurata rappresentazione di un mercato rionale Palermitano. Gente che strilla, sberle che volano e bambini che mangiano con le mani strozzandosi.

Ad un certo punto noto che la Volpe non è più seduta al suo tavolo. Stiro il collo guardandomi in giro e lo vedo seduto nell'ombra, lo sguardo scioccato, che scuote la testa.
Mi avvicino e gli chiedo cosa c'è che non va, se posso fare qualcosa.
Lui mi guarda, gli occhi pregni di anglosassone sdegno, e mi dice: “Quel gruppo di selvaggi urlava tutto il tempo. I bambini toccavano il mio cibo con le mani, mio Dio. Ho chiesto di essere spostato.”
Io, imbarazzato, scuoto la testa insieme a lui. “Ha fatto bene, sono mortificato.”, gli dico.

Poi la Volpe alza il suo telefono e me lo fa vedere.
“Uno dei bambini ha pure cercato di rubarmi il telefono”, mi dice. E poi, concludendo “Fuckin' animals”.





Alla fine della serata il Capo Famiglia mi si avvicina e, stringendomi la mano: “Torniamo domani”

Ho avuto paura. Suonava come una minaccia.

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