mercoledì 10 settembre 2014

ISOLA DI WIGHT: PARTE DUE

La mattina veniamo svegliati da un team di rianimazione inglese, costretti a lavarci e a trascinarci di sotto per la colazione. La sala è illuminata dalle grandi finestre e un sole provvidenziale rende l'atmosfera piacevole e calda. L'attenzione ai particolari, di nuovo, fa del Rockstone Cottage una ricetta vincente.




Succo d'arancia, yogurt fatto in casa con cereali e frutti di bosco e una full english cucinata bene e presentata meglio.
Ci alziamo dal tavolo rinvigoriti e pronti all'azione: obiettivo della mattina sono i “Needles”, fondamentalmente degli scogli bianchi e appuntiti che sorgono nella zona delle scogliere bianche.
Un nuovo pullman aspettato tantissimo ci fa scendere davanti al "Needles Park". Durante il viaggio noto immediatamente due cose: la natura attorno è incredibile e selvaggia e abbiamo fatto mezz'ora di viaggio con due tizi dietro di noi vestiti da Batman e da Pocahontas. Gli altri viaggiatori non sembrano sorpresi.










Pesca viene trasportata dal suo istinto femminile e inizia dirigere la base militare.


Una lunga camminata ci conduce sull'orlo delle bianche scogliere dell'isola dove sorge la “battery”, ossia una vecchia postazione missilistica da dove gli inglesi sorvegliavano che i francesi non rompessero le palle. 



Delle scale ci fanno passare in mezzo alle due stazioni di lancio e da li possiamo goderci i Needles in tutta la loro bellezza. 
Unico neo di un paesaggio altresì unico al mondo. Tutto quel cazzo di cemento. Capisco che una vecchia base di lancio possa avere un qualche valore storico, ma lasciare quei tozzi ammassi grigi sull'orlo della scogliera è qualcosa di assolutamente inaccettabile. 


L'uomo che sussurrava i cardi. Prego notare la delicatezza del mostro edilizio sullo sfondo.


Camminata di ritorno in cui abbiamo il piacere di osservare due giapponesi che affrontano la scalata armate di scarpe con tacco e orribili vestiti. Poi l'ennesima, eccentrica casa di un isolano: il suo giardino era completamente ricoperto di statue e pupazzetti di dubbio gusto. Quelle piccole ceramiche abominevoli che ti vengono regalate da zie mummificate e non appena la zia esce dalla porta vengono lanciate in una voragine e purificate con il fuoco. 


Grazie zia Ermenegilda, è bellissima. La metterò sopra la televisione!

Ci dirigiamo quindi a Sandown, città sul mare che ospita il museo interattivo dei dinosauri. Io inizio a masturbarmi selvaggiamente sul pullman all'idea che ho io di un parco del genere. Vi do un po' di indizi: 
1) Isola al largo della Costa Rica
2) Qui non si bada a spese
3) È previsto che si vedano dei dinosauri nel suo parco dei dinosauri.

Com'è Sandown? Inquietante. Semi abbandonata. Poco curata. Il set di un film di Silent Hill marittimo.








Per carità, la gente c'é, ma su tutto regna un grande senso di abbandono e desolazione. Un grande spettro che, invisibile, sussurra ai presenti “quest'isola sta lentamente morendo”.
Un chilometro sul lungo mare e un edificio dall'aspetto futuristico si staglia in fondo alla strada. Io dimentico immediatamente tutta la desolazione vista prima e mi inizio ad eccitare come un bambino. Pesca mi prende per mano, evitando che io mi lanci ad attraversare la strada senza guardare e di conseguenza rischiare di morire arrotato. 


Il museo è interessante e ti fa capire quanto l'Isola di Woght sia affettivamente una fottuta miniera d'oro per un qualsiasi paleontologo.
Ci sono scheletri. Ci sono animatronix. Ci sono tizi a cui chiedere domande, e reperti, e attività.

Ma la sensazione è sempre quella. Quel sottile, impronunciabile male di vivere. Quel senso di abbandono.

Sarà quella polvere raccolta sulle ammoniti, o quella cartaccia a terra, o quel dinosauro rotto che con vitrei occhi di plastica attende da anni una riparazione. Lasciato così, tristemente mutilato sotto gli occhi delle future generazioni.
Insomma esco dal museo con un senso di vaga depressione. Non compro nemmeno nulla dal gift shop. 






La felicità. Prego notare lo sguardo del bambino.



Un dinosauro vecchio.


Una delle creature più terribili e spaventose che abbiano mai camminato sulla Terra. Alla sua sinistra, un T-Rex.





Torniamo mestamente verso il centro città e ci fermiamo a mangiare del fish & chips. Ora, voi non ci crederete, ma io in due anni e mezzo il fish & chips non l'avevo mai mangiato.
Appena lo dico a Pesca quella per poco non mi allunga una sberla.
“Ma sei pazzo?”, mi dice con il tipico tatto delle femmine, “Andiamo a magná, dai.”



Ordiniamo una porzione grande di fish & chips e degli scampi panati.
Il cibo è abominevole. Il filetto di pesce X è poco cotto. La panatura è bagnaticcia e disgustosa come le mutande quando ci sudi. Sotto di essa dell'acquetta ripugnante e, infine, il pesce.
Gli scampi sono una massa indistinta e fritta, ma dall'ottimo sapore. Probabilmente a causa dei potentissimi agenti chimici al loro interno.
Le patate fanno cagare.




Raggiungiamo quindi il Fat Harry's, un locale che dall'esterno sembra affollato e dignitoso.
Ci sbagliavamo. Le persone che vediamo sedute ai tavoli sono anziani, molto probabilmente su quelle panche dalla rivoluzione industriale. Mangiano mestamente il loro pesce poco cotto, contribuendo a rendere l'atmosfera da incubo bucolico senza via di uscita.

Abbandoniamo il locale e i quattro teenager che lo gestivano, e per gestire intendo mandare messaggi sui loro smartphone e masticare chewing-gum a bocca spalancata.
Vaga pesantezza allo stomaco, generale voglia di morire.
Ci spostiamo sempre sulla costa, prima a Shanklin e poi a Ventnor. Ecco, la prima è sempre a retrogusto di malessere, ma con più gente e una valanga di mini golf e parchi attrezzati per bambini sul lungomare. Godibile. Sempre per la serie “devastazione del paesaggio”, una gigantesca ascensore permette al viaggiatore di risalire dal livello del mare al centro della città. Ecco, quest ascensore non è interrata. È UN GIGANTESCO PARALLELEPIPEDO DI CEMENTO, con (tanto per non farlo passare inosservato) una scritta LIFT sopra. A caratteri cubitali.
Pesca, infatti, mi fa notare la cosa con un “Mattí ma che è quell'obrobrio?”
Io rispondo esattamente come faccio sempre se si parla di inglesi: faccio una faccia alla Clint Eastwood e dico: “Son selvaggi”.
A Ventnor la situazione migliora con brio e la cittadina è effettivamente piacevole all'occhio, anche se l'occhio attento può notare i segni del degrado. Tipo un Piano Bar con il tavolo d'ingresso con strati geologici di polvere.
Indecisi su dove mangiare, che ormai era arrivata ora de magnà, ci ritroviamo indecisi fra Phileas Fogg's, ristorante tipo greco con ottime recensioni ma una coda infinita, e The Ale and Oyster, vicino al mare ma con prezzi da nababbi.
Ridiamo forte nel leggere i sopracitati e con un unico, agile salto ci troviamo sul pullman per Newport.
Decidiamo infatti di ripiegare sul piano B e dare una chance al Bargeman's Rest, ristopub arredato in maniera VIOLENTEMENTE MARITTIMA. Che significa? Allego foto.





Ci ha guardato per tutta la serata.


Ordiniamo del Camembert al forno con crostone di pane per mangiarselo, una cosa di una pesantezza inarrivabile e già illegale in mezza Europa.
Terminiamo il piatto con il respiro pesante e la fronte imperlata di sudore. 

Arriva il piatto principale: un panino con dentro QUATTRO hamburger di bovino, bacon, UN UOVO FRITTO e altro ben di Dio.
Un medico e un nutrizionista entrano nel locale ma vengono immediatamente assaliti dagli avventori e uccisi a colpi di remo e fiocina.



Il panino è pesante e deludente, come un appuntamento al buio con una cicciona. Gli hamburger sono sottili e poco saporiti, il pane insensato e il bacon triste.
Non ce la faccio a finirlo, complice il camembert che ha otturato lo stomaco e ora si espande alla gola e al culo.
Appesantiti dalla cena e sbeffeggiati da una pioggia sottile ci trasciniamo alla stazione dei pullman e da li torniamo al B&B.
Vorrei fare una doccia ma il camembert ci si infila prima di me, si lava e poi si fa la barba.
Decido di chiamarlo Paolo.

Ci sentiamo fra tipo una settimana per la terza e ultima parte.

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