giovedì 16 gennaio 2014

IL MIO RAGGUARDEVOLE VIAGGIO IN NAVE

Quando andai a visitare le verdi colline d'Irlanda, ormai parecchi anni fa, conobbi una sequela di personaggi ragguardevoli. A partire da Berardino (giuro si chiamava così), un ragazzetto alto approssimativamente 30 cm che era ladro provetto e una volta si rubò un servizio di pentole dalla cucina di un college. Oppure Due Ante, un ragazzo che nascondeva la testa in luoghi come zaini o cestini dell'immondizia se doveva imprecare. 
Ecco, Due Ante faceva parte del numeroso gruppo di sardi che conobbi allora, e con cui decisi, un anno dopo, di passare il capodanno.
Era il mio primo viaggio in barca da solo ed ero particolarmente eccitato. La nave era enorme e moderna, io molto felice e mia madre molto affranta. Che le madri come lei, se il figlio si allontana per capodanno (o un'altra festività X), credono che vada a drogarsi con i cannibali violenti del pianeta merda.
Il viaggio prosegue alla grande. Il vascello scivola veloce sulle onde e io, sul ponte, mi sento molto capitan mio capitan. Piombo in cucina all'ora di chiusura e imploro lo chef di poter mangiare. Quello, che aveva le dimensioni di un quattro assi della Iveco, mi fa un grande sorriso e mi siede in mezzo alla sala vuota.
“Ci fai un favore”, mi dice, “ che sennó ’sta roba si butta.”
 
Mi serve scaloppine ai funghi, una sull’altra, come se fossero pancake. La pasta ai porcini mi arriva servita dentro una betoniera. Mentre mi ingozzo, due schiavi ivoriani mi scudisciano con rami di rosmarino.
Lascio la cucina strisciando, con davanti agli occhi potenti allucinazioni.

Con l'aiuto di un montacarichi mi arrampico su una poltrona e inizio a scrivere sul mio diario di un tempo. Quando suona il telefono.
“Pronto?”
“Francesco! Sei un figlio di puttana! Perché mi hai lasciato?”
Una voce di donna rotta dal pianto.
“Scusi credo abbia sbagliato numero...”
“Vaffanculo Francesco, non mi fai ridere!”
“Non sono un Francesco, sono un Mattia, giuro.”

Momento di silenzio in cui la poverina singhiozza.

“Cioè in che senso non sei Francesco?”
“Eh. Non so come mettertela più semplice di così. Hai sbagliato numero e io sono Mattia, non Francesco.”
“Ti va di ascoltarmi?”
“Ok” dico io, sospirando.
“Posso chiamarti Francesco?”

Maledizione. Una pazza.

Passiamo le restanti due ore così, io che annuisco e gli dico di non piangere, di lasciar perdere, che lui non la merita, e lei che piange e mi chiama Francesco e che mi dice “Solo tu mi capisci Francesco.”
La conversazione si conclude con la promessa da parte di entrambi di incontrarci, un giorno, a Firenze. O dintorni.

Stremato dalla telefonata e dal cibo, crollo poco dopo. Un sonno profondo. Molto profondo.
Vengo svegliato dal potente, caratteristico “PWOOOOOOOO” delle navi che attraccano o partono. Attraverso le mie palpebre ancora appiccicate dalle caccole del sonno, intravedo una forte luce e capisco che è giorno. E che siamo al porto di Cagliari. Intorno a me, silenzio. Un silenzio innaturale. Mi stropiccio gli occhi e mi guardo intorno. Nessuno. In lontananza, una donna delle pulizie ramazza il pavimento.
Faccio un rapido due più due e capisco che la nave non solo è arrivata, ma se ne sta pure tornando a Civitavecchia. Inizio a correre, zaini in spalla. Come non ho mai corso in vita mia. Rapido sguardo dagli oblò: i marinai stanno togliendo gli ormeggi.
“FERMI! FERMI, PERDIO!”, urlo io, terrorizzato.
“PERCHÉ NON MI AVETE SVEGLIATO?” strillo alla donna delle pulizie, ma il suo volto è una maschera di cera inespressiva.
“FANCULO TUTTI!”, strillo mentre mi lancio fuori dai portelloni, ansimando.
Così iniziò la mia vacanza sarda. Furono giornate interessanti, con numerosi momenti di vera paura e delirio a Las Vegas. Tipo la serata in cui bevemmo 41 cocktail. In tre.
Oppure di quando venni risarcito con un paio di converse grigie.

Comunque.

Al mio ritorno al porto di Cagliari, l'esercito aveva bloccato tutto causa Allarme Terrorismo, montando dei giganteschi capannoni con i metal detector ad ogni entrata del porto, ognuno dei quali presidiato da guardie armate.
Mi avvicino allo scan controllando se avessi estratto dalle tasche tutto quello che avevo di metallico. Chiavi? Tolte. Cintura? Tolta. Monete, monetine, accendini? Fatto.

Passo sotto il metal detector, e solo mentre passo mi ricordo di quel coltellino appeso alla cintura, quello che mio padre mi aveva regalato. Adoravo quel coltellino, era la cosa più utile del mondo: a lama triangolare da tre centimetri, impugnatura ergonomica da rissa, era una manna dal cielo per chi, come me, non aveva unghie causa autorosicchiamento nervoso delle stesse. Ci aprivo le odiate confezioni dei CD, con quella meraviglia.

Comunque, il metal detector, suona. I militari si allarmano e mettono, velatamente, i polpastrelli in prossimità dei grilletti.
“Cosa ha appeso alla cintura?”, mi chiede un soldato con gli occhiali da sole a specchio.
Io allora faccio la cosa più stupida che si può fare di fronte ad un militare allarmato: estraggo il coltellino, glielo punti in faccia e gli dico “Non è nulla, è solo un coltellin...”

Non finisco la frase. 

Quattro militari paonazzi in volto mi urlano in contemporanea FACCIA A TERRA mentre mi puntano con i mitra.
Io mi appiattisco al suolo come un goffo opossum sorpreso dal predatore. 
“MOLLALO. MOLLAILCOLTELLOBUTTALOATERRA!!!!”, mi strillano loro. 
Chiudo gli occhi e mi dico “Avrai una figata di storia da raccontare all'inferno, vecchio mio!”
E invece, come avrete intuito, i militari non mi ammazzano. Forse perché il destino aveva altri progetti per me, tipo diventare l'autore del blog più interessante dalla nascita del web.
Passo un'ora e mezza a scusarmi e a convincerli a ridarmi in dietro il coltellino, che è un caro ricordo, che era del mio nonno veterano del Vietnam, che è stato fatto a mano in Atlantide, cose del genere.

Torno a casa scioccato.

Attendo ancora con terrore un'altra chiamata dalla ragazza della nave.

Nessun commento:

Posta un commento